Di cosa parliamo quando parliamo di counseling

Cos’è il counseling? Sapresti rispondere a questa domanda? Non vale guardare su Wikipedia eh! Se la tua risposta è sì: molto bene! Chissà se la pensiamo allo stesso modo…

Se invece non hai la più pallida idea di cosa sia il counseling, beh, non mi preoccuperei più di tanto perché: a) sei in buona (ottima!) compagnia; b) il fatto che tu non sappia rispondere è – in buona parte – una responsabilità mia e di quanti, come me, studiano e praticano questa professione; c) ho creato apposta questo blog! Se vuoi saperne di più sui motivi che mi hanno spinto a intraprendere questa avventura, dai un’occhiata qui.

Counsel… che?!?

“Sai, sto frequentando un master universitario in Counseling”. Mi capita spesso di parlare dei miei studi con familiari, amici e colleghi. Di fronte a questa affermazione, la risposta corporea (aggettivo che preferisco a non verbale, perché dà identità e dignità a una forma di comunicazione fondamentale, che è riduttivo definire come non-qualcosa… definiresti il tuo corpo come non-parola???) è più o meno sempre la stessa: gli occhi si stringono fino a diventare due fessure e riesco a sentire le meningi che lavorano forsennatamente. Poi, a furia di spremere, un lampo accende l’iride… EUREKA! E finalmente arriva la risposta verbale.

Dopo averne raccolto una discreta quantità, sono ormai in grado di suddividere le reazioni in 4 macro-categorie:

1. Ne ho sentito parlare, ma sinceramente non ci ho capito un piffero… (la più gettonata)

2. Ah sì, diventerai una specie di PSICOLOGO giusto? (dai, fuochino)

3. Mmm, è una cosa tipo COACH vero? (Mmm, acqua)

4. Ho capito, sei un MENTALISTA!!! (Questa a dire il vero l’ho sentita una volta sola, ma per originalità le batte tutte! Già mi vedevo nei panni di Patrick Jane…)

Questi quattro “errori” sono stati per me un’occasione preziosa di apprendimento. E ringrazio le persone che senza saperlo hanno partecipato al mio piccolo esperimento. Infatti non dobbiamo dimenticare che

Il più grande contributo alla comprensione di un processo non lo danno i “risolutori”, ma gli “sbagliatori” e i “risolutori” in tandem.

(Marianella Sclavi)

È un po’ come dire che fino a quando la nostra macchina fa il suo dovere e ci porta a spasso possiamo anche non conoscere la differenza tra un pistone e una candela, così come possiamo ignorare i principi di funzionamento del motore. Però quando rimaniamo a piedi in autostrada alle quattro del mattino, dopo aver recitato tutti gli improperi di cui siamo a conoscenza, ci chiediamo perché non abbiamo voluto dare almeno un’occhiata a quel barboso capitolo sulla meccanica nel libro di scuola guida. Il compenso da capogiro lasciato al conducente del carro attrezzi ci insegna che: 1) forse valeva la pena di essere più curiosi 2) quando un sistema si inceppa è più semplice capirne il funzionamento. O se non altro siamo più motivati a farlo.

Ecco allora che l'”incidente” tra me e e le mie ignare “cavie” ha reso evidente una cosa molto importante:

l’universo di significati che la parola counseling attiva nella mente della maggior parte delle persone (troppo) spesso non coincide con la realtà della professione.

A questo punto non ci resta che tornare alla domanda di partenza e provare a venirne a capo. Riproviamoci: cos’è il counseling?

Un po’ di storia

Il counseling inteso come intervento professionale di aiuto distinto dalla psicoterapia nasce intorno agli ANNI VENTI del secolo scorso e mette radici in due ambiti ben precisi: l’educazione e il volontariato. Le iniziative rivolte al disagio sociale che prendono forma in  questi campi contribuiscono allo sviluppo del counseling, ma allo stesso tempo ne rendono ambigui i rapporti con la psicoterapia da un lato e con la più vasta area dell’aiuto e della cura dall’altro.

Questa ambiguità non viene sciolta neppure quando il counseling comincia, a partire dagli ANNI QUARANTA negli Stati Uniti, a caratterizzarsi come specifica forma di intervento d’aiuto condotta da professionisti dell’ambito socio-sanitario. Nel 1939 lo psicologo statunitense Rollo May pubblica L’arte del counseling, una raccolta di lezioni ed esperienze in cui mette a fuoco gli aspetti fondamentali del processo del counseling.

Tre anni dopo, nel 1942, Carl Rogers pubblicherà Il counseling come psicoterapia di consultazione, che darà inizio a una vera e propria rivoluzione, gettando le basi della sua nota client-centered-terapy (terapia centrata sul cliente) e della psicologia umanistica.

Negli ANNI SESSANTA, in Europa e in particolare in Gran Bretagna, si diffondono agenzie di counseling che si dedicano soprattutto alla promozione di campagne di educazione demografica. Questo porta all’ufficializzazione della pratica professionale del counseling, con la costituzione della British Association for Counseling (BAC).

Con gli ANNI OTTANTA, la disoccupazione dilagante e il tatcherismo scuotono e mettono in crisi il mondo giovanile, creando condizioni favorevoli per la diffusione di servizi specialistici in grado di offrire un sostegno alle gravi problematiche sperimentate dai giovani di quel periodo.

E IN ITALIA? Qui il counseling si è sviluppato con ulteriore ritardo rispetto ai Paesi anglosassoni. Fino alla fine degli anni Sessanta il contesto socio-politico e culturale del nostro Paese ha reso molto difficile una riflessione su questo tema. Negli anni Ottanta, più precisamente il 18 febbraio 1989, viene approvata la legge n. 56 in materia di “Ordinamento della professione di psicologo”. Questa legge costituisce un importante spartiacque perché, normando la professione dello psicologo, esclude il counseling dall’area della psicoterapia, ricollocandolo nell’ambito – ancora nebuloso – delle professioni d’aiuto. Un bel caos eh?

Questa crescita tumultuosa e disordinata ha contribuito a fare in modo che col termine counseling venisse (e tuttora venga) indicata una varietà di interventi di aiuto, rendendo così difficile tracciare dei confini netti tra ciò che è e ciò che non è counseling.

Se poi consideriamo il fitto sottobosco di percorsi formativi e specializzazioni che negli ultimi anni si sono moltiplicati come funghi, ora dovrebbe essere più chiaro perché probabilmente hai avuto qualche difficoltà a rispondere alla domanda con cui ho aperto questo post. ;-)

Il counseling NON È…

Non è affatto facile spiegare in poche parole di cosa parliamo quando parliamo di counseling. Diciamolo, la parola stessa non aiuta: il termine counseling infatti è intraducibile in italiano. Alcuni preferiscono tradurlo con consulenza, che a me personalmente non fa impazzire. Se poi ci mettiamo che nella maggior parte dei dizionari inglesi il concetto viene tradotto con dare consigli o assistenza (esattamente quello che il counseling non è!!!) la frittata è fatta.

E se partissimo da quello che il counseling non è? Proviamoci!

  • Non è dare consigli.

  • Non è dare informazioni.

  • Non è intervenire direttamente.

  • Non è insegnare.

Queste quattro strategie di aiuto hanno tutte in comune un presupposto: considerano l’aiuto come un “bene” che passa da chi lo possiede (soggetto attivo) a chi lo richiede (soggetto passivo). Secondo questa logica, la persona in difficoltà (helpee) è un “vaso vuoto”, che chi offre aiuto (helper) dovrà riempire con le proprie competenze.

Non sto dicendo che questi modi di aiutare siano sbagliati, anzi! Li usiamo quotidianamente, per affetto o per obblighi di reciprocità verso le persone con cui entriamo in relazione. Quel che è certo è che tutte e quattro le modalità d’aiuto descritte dipendono interamente dalla competenza di chi aiuta. Sono forme di aiuto indubbiamente utili –  intendiamoci – ma, nella misura in cui entrano in conflitto con i bisogni profondi della persona che chiede aiuto, costituiscono un rimedio parziale, superficiale, e in alcuni casi addirittura pericoloso.

Il counseling È…

… una strategia di aiuto più specifica e profonda. Cioè?

“Il counseling si sviluppa sulla originaria intuizione rogersiana secondo la quale se una persona si trova in difficoltà il miglior modo di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare quanto piuttosto quello di aiutarla a comprendere la situazione e a gestire il problema prendendo da sola e pienamente la responsabilità delle scelte eventuali. Le soluzioni devono venire per quanto possibile dalla persona e innestarsi sui suoi schemi di riferimento.”

(Fabio Folgheraiter)

In quest’ottica, possiamo definire il counseling:

  • un aiuto complesso: non agisce sul problema in sé, ma sullo sviluppo delle risorse e delle competenze di chi chiede aiuto;

  • un processo paziente: può essere un lavoro laborioso;

  • un percorso strutturato: segue regole e strategie precise, che poggiano su specifiche competenze e su specifici modelli teorici di riferimento.

Alle peculiarità del counseling, cioè agli elementi che lo differenziano dalla psicoterapia, e alle caratteristiche distintive del counselor ho dedicato un post a parte.

Qual è, tra i segni particolari del counseling, quello più importante? Ti propongo un piccolo esercizio. Immagina che una persona sia rimasta al buio e ti stia chiedendo aiuto. Se le offri un cerino o una torcia, le stai senz’altro risolvendo un problema ma la stai aiutando solo parzialmente, in maniera superficiale. Una volta consumato il cerino o esaurite le pile, il problema si ripresenterà infatti identico: puf, buio. Se invece la aiuterai a prendere coscienza degli strumenti (accendino, legna, carta… altro?) e delle abilità (è in grado di maneggiare il fuoco senza ferirsi o sarebbe meglio che si procurasse una torcia?) in suo possesso e la metterai in condizione di utilizzarli per generare autonomamente luce, la aiuterai davvero.

Ranocchi, principi e principesse

Attivare consapevolezza e autonomia, camminando con il (e non al posto del) cliente. Nella carta d’identità del counseling metterei questo come segno particolare, che nasce da una premessa fondamentale. Si tratta di una convinzione profonda:

Ciascun essere umano nasce principe o principessa; poi le prime esperienze convincono alcuni di essi di essere dei ranocchi. Date queste premesse esistono due tipi di obiettivi terapeutici. Il primo è ottenere una cosa chiamata “miglioramento” o “progresso”, il che significa far stare meglio il ranocchio; il secondo tende al curare o guarire che significa togliersi la pelle del ranocchio per riprendere lo sviluppo interrotto del principe o della principessa.

(Eric Berne)

Credere che ogni persona abbia dentro di sé tutto quello che serve per tornare ad essere un principe o una principessa. Credere che ciascuno di noi possieda, in sé, le risorse per star bene ed essere felice. Credere che ogni essere umano meriti rispetto per il semplice fatto di essere nato.

Su queste fondamenta dovrebbe poggiare i piedi ogni counselor degno di questo nome.

Questo è il mio punto di vista. Adesso però mi piacerebbe conoscere il tuo. Cos’è, per te, il counseling?

 

PER APPROFONDIRE



Fabio Folgheraiter, La relazione di aiuto nel metodo di Robert Carkhuff, in Robert Carkhuff, L’arte di aiutare, Erickson, 1987.
Mario Fulcheri, Il counseling in Italia: quale professionalità e quale sviluppo?, in Counseling. Giornale italiano di ricerca e applicazioni, Erickson, Vol. 1, N. 1, Febbraio 2008, pp. 17-29.

Autore: Roberto Fioretto

Manager della comunicazione e counselor con il pallino dello s-viluppo (inteso come liberazione dai viluppi che imbrigliano il potenziale) organizzativo. Osservatore appassionato dei sistemi che le persone attivano entrando in relazione. Amo esplorare le culture organizzative e considero come la parte più importante del mio lavoro mettere in contatto le persone (e me stesso) con il loro potenziale più alto. Autore di LeadEretici, il podcast dedicato alla leadership generativa.

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